giovedì 4 giugno 2015

"Chi manda le onde" di Fabio Genovesi: i regali del mare che portano sorrisi e lacrime








Chi manda le onde di Fabio Genovesi, già autore di Tutti primi sul traguardo del mio cuore (leggi la recensione), è un romanzo fatto di tante storie che si intrecciano tra di loro in modo perfettamente calibrato e armonioso. Il libro, candidato al Premio Strega 2015, è ambientato a Forte dei Marmi, luogo di villeggiatura nel cuore della Versilia e sfondo prediletto della narrativa di Genovesi, che in questa cittadina è nato e cresciuto, e qui ha trovato l’ispirazione e le idee per le sue creazioni narrative. Per lo scrittore toscano, infatti, la Versilia è  un parco giochi per la scrittura, un vero e proprio luogo dell’anima e un posto perfetto per scrivere storie perché in questi luoghi c'è tutto: il mare e la montagna a pochi chilometri di distanza.

Come si può dedurre dal bellissimo titolo, Chi manda le onde, al centro di tutto c’è il mare immenso  
con la sua acqua che non dorme mai, e le sue onde che arrivano da sempre e per sempre una dopo l’altra, toccano la riva e sembra che finiscano lì, ma invece non finiscono. Solo tornano indietro per farne salire altre e altre e altre
Le onde arrivano piano e si spalmano sulla sabbia e, prima di tornare indietro, lasciano qualcosa sulla riva. Sono i regali del mare: conchiglie, pezzi di legno, lattine, scarpe, giocattoli rotti  e altri miliardi di cose. Ma il mare di Fabio Genovesi, insieme alle onde, porta soprattutto storie che arrivano e travolgono la superficie calma della vita dei personaggi del romanzo.

C’è Serena, una donna molto bella a cui la vita ha riservato solo delusioni. Le sue uniche gioie sono i suoi due figli: Luna, una ragazzina albina molto sensibile, che deve evitare la luce il più possibile ma è attratta dal sole in modo irresistibile; e Luca, un ragazzo bellissimo con la passione per il surf, che si fa travolgere da un’onda sbagliata. Poi ci sono Zot, un bambino basso e secco che viene da Chernobyl, si comporta come un vecchio e parla in un italiano antico, modellato sulle canzoni di Claudio Villa; e il suo nonno adottivo Ferro, un vecchio bagnino burbero e scorbutico che ce l’ha con i russi che hanno invaso Forte dei Marmi; infine c’è Sandro, supplente precario d’inglese e quarantenne senza speranza che vive di espedienti, trascorrendo gran parte delle sue giornate in attività inutili insieme ai suoi due amici falliti, Marino e Rambo. I personaggi di Chi manda le onde vivono in una realtà piena di buche e pozzanghere, in cui sporcarsi fa parte di un gioco che prevede gioia e dolore, sorrisi e lacrime. Fabio Genovesi, con la sua ironia e la sua scrittura magistrale e leggera riesce a rendere perfettamente le emozioni di ognuno di loro, dando vita a un mondo pieno di storie che assomigliano a
un temporale, a una burrasca, a una tempesta di schiaffi, con dentro ogni tanto, per sbaglio, una carezza.


lunedì 16 febbraio 2015

La vita a pedali di Paolo Aresi: Una vita consacrata alla bici














Scriveva il grande Dino Buzzati diversi anni fa: "No, non mollare, bicicletta. Se tu capitolassi, non solo un periodo dello sport, un capitolo del costume umano sarà finito,ma si restringerà ancor più il superstite dominio dell’illusione dove trovano respiro i cuori semplici". Cuori semplici sono i personaggi del bel romanzo di Paolo Aresi La vita a pedali, dedicato a uno dei più grandi campioni del ciclismo italiano e mondiale di tutti i tempi, Felice Gimondi, vincitore in carriera di tutti e tre i Grandi Giri, Giro d’Italia (tre volte), Tour de France e Vuelta di Spagna, e di un campionato del mondo su strada.
Fonte di ispirazione del romanzo di Aresi è stato un luogo particolare,il Museo del Falegname di un paese vicino a Bergamo, Almenno San Bartolomeo, in cui si trovano un buon numero di biciclette da lavoro, ciascuna adattata a un mestiere (barbiere, calzolaio, arrotino, etc.) e alcune bici di campioni del ciclismo, tra cui anche quella di Gimondi. Dalla felice unione della storia di Gimondi con quella dei diversi ciclisti dei mestieri, è nato La vita a Pedali, ambientato nel secondo dopoguerra, con sullo sfondo lo scontro tra fascisti e antifascisti e la sana rivalità tra Coppi e Bartali.
Sempre presente nel libro di Aresi è la bici, considerata come un essere animato e magico che dà coraggio, speranza e gioia a chi la utilizza per esigenze di lavoro, per una particolare missione finalizzata al bene o per semplice passione. Si tratta di storie belle di per sé ma che, grazie alla presenza della bicicletta diventano ancora più belle.
La storia di Gimondi parte dall'infanzia, quando il futuro campione sfida i compagni di classe con la sua bici, un’Ardita rosso fiammante, avendo un unico pensiero, quello di raggiungere il traguardo prima degli altri. Continua con un Gimondi leggermente cresciuto, che assiste con il padre all’eroica impresa del suo idolo Fausto Coppi al mondiale su strada di Lugano del 1953, e da quel momento si mette in testa un solo, unico sogno, quello di diventare un campione di ciclismo. E ha il suo felice epilogo con l’adulto Gimondi che realizza il suo sogno trionfando al campionato mondiale di Barcellona del 1973 e battendo il rivale di sempre, il cannibale Eddy Merckx. Gli episodi della vita a pedali di Felice Gimondi sono intervallati da altre storie di vita a pedali, storie di tutti i giorni che hanno per protagonisti ambulanti ciclisti dei mestieri: il calzolaio, il cantastorie, l’arrotino, il panettiere, il caldarrostaio, l’ombrellaio, il gelataio, il fotografo.
Alfredo Martini, indimenticabile CT del ciclismo italiano e grande amico di Gimondi diceva che la bicicletta fa bene perché chi va in bici canta, sorride, fischia, soprattutto pensa. La bici ha fatto sicuramente del bene a Felice Gimondi, che era uno che pedalava sempre, pedalava ogni giorno e pedala ancora oggi. La sua è stata una vita consacrata alla bici, una vita a pedali.









domenica 21 settembre 2014

Mi ricordo di Joe Brainard: Come inventare una macchina del ricordo

Mi ricordo
di Joe Brainard
Edizioni Lindau



Joe Brainard è stato un pittore, poeta e scrittore americano che probabilmente non avrebbe lasciato grandi tracce se un bel giorno dell’estate del 1969, quando aveva solo ventisette anni, non avesse inventato quella che Siri Hustvedt definisce una vera e propria "macchina del ricordo". Il meccanismo di questa macchina è molto semplice e ce lo spiega con parole efficaci Paul Auster: "Scrivete le parole -Mi ricordo-, fermatevi per un momento o due, date modo alla vostra mente di aprirsi, e inevitabilmente ricorderete, con una chiarezza e una specificità che vi stupirà". Chiunque  può fare questo esercizio di memoria e di scrittura, riuscendo a rievocare momenti particolari di esperienze ormai lontane nel tempo. Ma il merito di Joe Brainard consiste nel fatto che, oltre ad aver scoperto questa potente macchina della rievocazione, egli la sa usare in modo impeccabile e incantevole. Quelli di Mi ricordo, infatti, sono dei meravigliosi e sorprendenti pezzettini di prosa che brillano per originalità e fantasia, e dimostrano quanto bravo sia l'autore a raccontare dei frammenti di vita vissuta con uno stile semplice ma coinvolgente che fa sì che il lettore resti, quasi ipnotizzato e attaccato alle pagine del libro.
I quasi millecinquecento ricordi del libro trattano degli argomenti più svariati, evidenziando gli innumerevoli interessi di Brainard, uomo curioso di tutto ciò che lo circonda.Tra le pagine di questo piccolo capolavoro si trovano ricordi legati a esperienze di ogni genere: Mi ricordo è infatti un contenitore e un collage di memorie in cui si può trovare qualsiasi cosa.

Molto spazio ha, com'è naturale nei ricordi, l’età dell’infanzia, epoca "colorata" e spensierata, piena di giochi,scherzi e passatempi di ogni sorta:
Mi ricordo le battaglie con i cuscini /  Mi ricordo Bel vestito!(si correva qua e là tirando su il vestito alle bambine e urlando Bel vestito! Mi ricordo quando i bambini inciampano, patapum! / Mi ricordo nascondino, e che sbirciavo quando facevo la conta/ Mi ricordo le pietre che raccogli qua e là e quando torni non sai cosa fartene.

Ecco poi descritti i pensieri buffi, ingenui e tipici di un bambino:
Mi ricordo quando pensavo che se uno faceva qualcosa i poliziotti lo mettevano in prigione / Mi ricordo che dicevano che se un nero si sposava con una bianca e facevano un bambino poteva uscire a pois bianchi e neri.

Lo scrittore americano racconta poi lo strano rapporto che aveva da piccolo con alcuni giocattoli e la sua curiosità di conoscere i loro meccanismi nascosti:
Mi ricordo che una volta rimasi a dir poco deluso scoprendo che nella pancia di un vecchio orsacchiotto c’era solo bambagia grigia e qualche filo rosso.

Non mancano le avventure e le marachellle in certi ambienti caratterizzati da regole ferree, come la scuola o la chiesa, che il Brainard bambino non riesce però a rispettare:
Mi ricordo il momento della comunione in cui era più difficile non ridere. Era quando dovevamo tirare fuori la lingua e il reverendo ci metteva sopra l’ostia. Le ostie avevano un buon sapore. Una volta ne trovai un barattolo intero in un armadietto nella sala del coro e ne mangiai un sacco. A mangiarne un sacco non sono buone come quando ne mangi una sola.

L'autore descrive anche i tragicomici esperimenti fatti da bambino sugli animali: 
Mi ricordo un caldissimo giorno d’estate, misi dei cubetti di ghiaccio nell'acquario e tutti i pesci morirono/ Mi ricordo che acchiappavo le lucciole e le mettevo in un barattolo con dei buchi sul tappo per poi liberarle il giorno dopo.

Il giusto risalto hanno pure i ricordi legati ai genitori:
Mi ricordo mia madre che raccontava le cose divertenti che avevo fatto da piccolo e che ogni volta diventavano più divertenti / Mi ricordo che da piccolo dicevo "urca!" ogni volta che vedevo una donna dai capelli rossi perché a mio padre piacevano le rosse e ci facevamo sempre una risata.

Brainard riferisce poi i propri gusti riguardo al cibo, rivelando i suoi giocosi modi di mangiare e i suoi estemporanei tentativi di accostare alimenti per produrre nuove ricette poi rivelatesi disgustose: 
Mi ricordo di aver scavato tunnel e città mentre mangiavo l’anguria / Mi ricordo che pensavo di aver fatto la scoperta del secolo quando mi venne in mente di mangiare i cereali con il succo d’arancia invece del latte, ma poi li assaggiai e facevano schifo/ Mi ricordo che il formaggio in polvere da mettere sugli spaghetti puzzava di piedi in modo piuttosto sospetto.

Meravigliose sono le osservazioni sull'incantamento prodotto dalla visione dei fenomeni naturali, e comici appaiono i primi esperimenti relativi alla piantagione di alcuni semi:
Mi ricordo arcobaleni nelle pozze oleose dell’asfalto dopo la pioggia/ Mi ricordo che se chiudi gli occhi rivolti al sole vedi tutto rosso/ Mi ricordo che una volta piantai di nascosto dei semi di anguria in cortile ma non successe un bel niente.

C’è infine spazio per i dubbi legati ai grandi misteri della vita: 
Mi ricordo che non capivo come i bambini potessero uscire da un buco così piccolo ( E non l’ho ancora capito). 

Diversi scrittori hanno tentato di imitare la perfetta e armonica struttura di I remember di Joe Brainard, e alcuni lo hanno fatto anche con buoni risultati, come lo scrittore francese Georges Perec in Je me souviens; ma ilMi ricordo di Joe Brainard resta tuttora, per i motivi sopra esposti, un’opera insuperata e insuperabile. 



giovedì 18 settembre 2014

Papere



Nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizioni assai leggiere, ma ricco e bene inviato e esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una donna moglie, la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. 
Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’età di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse; e veggendosi di quella compagnia, la quale egli più amava, rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo ma di darsi, al servigio di Dio e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni cosa per Dio, senza indugio se ne andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta se mise col suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da co­sì fatto servigio non traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de' santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa di sé dimostrandogli.
Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze: e quivi secondo le sue oportunità dagli amici di Dio sovenuto, alla sua cella tornava.
Ora avvenne che, essendo già il garzone d’età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov’egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: “Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò chè, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovine e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe' nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?”
Il   valente uomo, pensando che già questo suo figliolo era grande e era si abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: “Costui dice bene”; per che, avendovi ad andare, seco il menò.
Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali, tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza vedute no’ n’ avea, si cominciò forte a maravigliare e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva; e egli, avendola udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E così domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno: le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero.
A cui il padre disse: “Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch’elle san màla cosa”.
Disse allora il figliuolo: “O come si chiamano?”
Il   padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole desiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: “Elle si chiamano papere”.
Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non avea, non curatosi de' palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de' denari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: «Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere”.
“Oimè, figliuol mio,” disse il padre «taci: elle son mala cosa”.
A cui il giovane domandando disse: «O son così fatte le male cose?” “Sì” disse il padre.
E egli allora disse: “Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è, a me non è ancora paruta vedere alcuna cosa bella né così piacevole come queste sono. Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete più volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà sù di queste papere, e io le darò beccare”.
Disse il padre: “Io non voglia; tu non sai donde elle s’imbeccano!” e sentì incontamente più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi d’averlo menato a Firenze.

Giovanni Boccaccio, Il Decameron


Dario Fo, L'apologo delle papere 

domenica 31 agosto 2014

Formiche




Mio padre si accorgeva sempre in ritardo delle cose, e per questo particolare io l’ho sempre ammirato. Una volta eravamo a casa, lui e io da soli, mia madre era andata un paio di giorni dai nonni che abitavano lontano e stavano sempre male anche quando stavano bene e non avevano niente, e all’improvviso sono arrivate le formiche ( a casa abbiamo sempre dovuto combattere contro le formiche, ancora oggi non riesco a capire da dove arrivassero, visto che abitavamo al quarto piano). Prima ne era comparso un gruppetto, forse dieci o venti, non si riesce mai a contarle, le formiche. Dopo cinque minuti ne era arrivata un’intera truppa che si muoveva in modo sparpagliato, senza direzione, sopra il lavandino, sopra i fornelli; alcune avevano raggiunto il frigo e formavano arabeschi sullo sportello, senza meta; erano una miriade di formiche smarrite nel deserto, che andavano a zonzo come impazzite o drogate. Io le osservavo incuriosito, un po’ incantato, come quando si guardano le onde del mare e non ci si stanca mai. Chissà con che speranza erano arrivate fin lassù, al quarto piano. Anche se avevo poco spirito scientifico, mi piaceva immaginare come poteva essere fatta una società di formiche. Avevano di sicuro delle caste ben definite all’interno del formicaio e a una appartenevano le esploratrici. Ma quelle nella nostra cucina non sembravano capeggiate da nessuna in particolare, né che obbedissero a un comando. Addirittura sbattevano una contro l’altra, come se avessero perso la loro guida. Quando ho pensato che era arrivato il momento di intervenire, ho chiamato mio padre e gli ho detto: “Guarda, babbo, ci sono le formiche in cucina”. Lui mi ha raggiunto, non subito, le ha guardate per un po’, poi mi ha accarezzato la testa e se ne è andato sorridendo. Cosa avesse da sorridere è rimasto un mistero; forse non aveva capito, oppure gli sembrava naturale che ci fossero le formiche in casa. Io ho continuato a guardarle, se andava bene a lui andava bene anche a me (le formiche non mi davano nessun fastidio, peggio sarebbero stati gli scarafaggi, o i topi). Poi però è tornata mia madre, l’ho salutata e sono andato in camera mia, sapevo che a lei non piacevano le formiche e che non accettava nemmeno che io stessi lì a guardarle senza far niente. Infatti, quando è entrata in cucina e ha visto tutto quel brulichio, ha iniziato a urlare in un modo così isterico che sembrava che la stessero strozzando. Allora mio padre l’ha raggiunta in cucina, col suo passo morbido, e le ha chiesto: “Che cosa sta succedendo Enrichetta?”. Non so se è stato l’uso del gerundio o il fatto che mio padre non fosse arrivato di corsa al primo strillo. Ma mia madre, invece di prendersela con le formiche, ha cominciato a dire che non aveva mai conosciuto, e che di sicuro non poteva esistere sulla faccia della terra, un uomo più imbecille di lui; che non riusciva a spiegarsi come avesse potuto sposare un imbecille del genere ( ci teneva a sottolineare il rimbecillimento di mio padre e cercava, anche con dei giri di frasi assai strani, di declinare questa parola in modi diversi). Mio padre non diceva niente, incassava gli insulti e basta. Poi si è avvicinato al lavello e, senza curarsi degli insulti che continuava a rivolgergli mia madre ha detto: “Oh, quante formiche”.


Adrian Bravi, "L'albero e la vacca", Feltrinelli (Nottetempo)





Un viaggio per mare limpido, brillante, colorato, intenso e gioioso come un bicchiere di Brunello di Montalcino

Oltre le Colonne d'Ercole
di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini
BookSprint Edizioni, 2014




L’estate, si sa, è tempo di vacanze e di viaggi. Un libro interessante, divertente e coinvolgente per chi non può permettersi un vero viaggio, ma vuole imbattersi nelle briose sensazioni della crociera è Oltre le colonne d’Ercole di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini, già autori del fortunato diario d’avventure per mare Da costa a costa (clicca qui per la recensione) I protagonisti, nonché autori del libro, sono sempre loro due, L e D (Lorenzo e Dario), che un anno dopo il primo viaggio, ripartono, come due prodi Ulisse, per una nuova e allegra crociera, ricca di sorprese, spunti di riflessione e colpi di scena inaspettati. 


La prima tappa della loro e della nostra avventura si svolgea Barcellona, città della Catalogna con delle prospettive artistiche strepitose; si va dal medievale Barrio Gotico in cui sorge la cattedrale, capolavoro del gotico catalano, a eleganti palazzi neoclassici, fino ad arrivare ai quartieri colorati in cui si alternano case liberty, neogotiche e floreali. Barcellona è anche la citta in cui visse e operò Antoni Gaudì, immaginifico architetto capace di creare splendide e avveniristiche opere: Casa Battlò, con le sue finestre dalle forme sinuose e rotondeggianti (vedi foto facciata a destra); Casa Milà,detta anche La Pedrera (letteralmente cava di pietra) per la sua facciata esterna rivestita di pietra grezza come una parete di roccia modellata dalle forze della natura; il fantasmagorico e onirico Parco Guell, con la sua vegetazione incantata e i suoi portici costruiti con pietre informi ricavate dal terreno circostante; e la Sagrada Familia, con le sue torri affusolate che assomigliano a pinnacoli di castelli di sabbia innalzati da mani gocciolanti di bambini.


Solitamente la nave, durante il viaggio per mare, all'ora dell’aperitivo si trasforma in un vero e proprio circolo culturale con dibattiti di ogni tipo a cui partecipano svariati personaggi, e tra questi i nostri due eroi viaggianti, L e D. Nel corso della crociera gli ospiti della nave si intrattengono, infatti, in argomenti e questioni misteriose che possono avere per oggetto l’Oceano Atlantico e l’isola di Atlantide, l’avventurosa vita di Thor Heyerdal, le Colonne d’Ercole, i costruttori di Nuraghi e il cavallo di Troia. 

Dopo qualche interessante discorso e dissertazione come quella, gustosissima ed esilarante, riguardante le avventure di L al Cinema di Venezia,  la tappa successiva della crociera ci porta a Tenerife, detta anche Isla del Infierno a causa delle temibili eruzioni del suo vulcano, El Teide, e famosa per la sua enorme montagna conica e per le piramidi di Guimar (vedi foto), a gradoni e di forma rettangolare. Si prosegue poi verso Malaga, città mediterranea al centro della Costa del Sol , caratterizzata da  Gibralfaro, una collina a ridosso del mare, dall'Alcazaba, antica dimora araba, dalla monumentale Cattedrale de la Encarnacion e da un museo dedicato al grande pittore Pablo Picasso, che qui abitò fino all'età di dieci anni.

Si arriva infine a Roma, il più grande museo a cielo aperto del mondo ma anche un museo sotterraneo ancora pulsante; infatti molte case odierne poggiano su antiche costruzioni  e vi è chi, scavando, ha scoperto che il suo portone d’ingresso al piano terra si trova al terzo piano di un’antica costruzione romana.

Oltre le Colonne d'Ercole si conclude con uno dei due protagonisti che sorseggia un bicchiere di Brunello di Montalcino, un vino limpido, brillante, colorato, intenso e gioioso. Proprio come questo libro.


Brasile 1950 – Brasile 2014: La maledizione del Mondiale in casa

Il Brasile dei Mondiali del 1950 era una nazione umile in cui il calcio, impastato di umanità, si praticava con poche risorse economiche. C’erano i palloni di cuoio con le cuciture e le maglie delle squadre senza scritte. C’era il calcio bailado, fatto con stracci e fantasia. Il Brasile era un paese povero ma anche felice, in cui da mattina a sera per le strade si vedevano frotte di bambini giocare allegri e accontentarsi del poco che avevano. C’è un brano di un bellissimo romanzo di Fabio Stassi, È finito il nostro carnevale (Minimum fax, 2007), che descrive perfettamente l’atmosfera magica che si respirava in quel Brasile del 1950:


I bambini giocavano a pallone contro i muri delle case, per strada, sulle scalinate. Lì quasi nessuno aveva le scarpe. Il calcio era come l’amore, non costava nulla. Un pomeriggio mentre guardavo palleggiare dei ragazzini pieni d’estro su un campo di terriccio, venne giù il temporale più violento che mi avesse mai bagnato. Trovai riparo sotto la tettoia di un capannone. La pioggia si era fatta tempesta, e la tempesta diluvio. Un fiume di fango scorreva davanti ai miei piedi e vedevo baracche di lamiera verniciata scivolare giù dalle colline come biglie di vetro. Eppure, in tutto quel cataclisma, i ragazzini non avevano smesso di giocare. Sfidavano i fulmini con irriverenza. Gareggiavano a chi riuscisse a mantenere la palla più a lungo per aria. Si esibivano in controlli acrobatici, dribblando il vento e l’acqua. Se la loro passione era più forte di tutte le piogge della terra, i brasiliani quell'anno avrebbero di sicuro conquistato la Coppa del Mondo”.

Il Brasile è uno di quei posti in cui il calcio è ragione di vita, in cui un trionfo in Coppa del Mondo basta per far dimenticare povertà e disgrazie. Per il popolo brasiliano quel Mondiale giocato in casa era una questione di vita o di morte. La partita decisiva si giocò il 16 luglio 1950 al Maracanã di fronte a 199.854 spettatori, record di ogni tempo. Il Brasile, per vincere la Coppa, poteva anche pareggiare (allora le regole erano diverse). Fin lì aveva dominato tutte le partite e tutti i tifosi brasiliani erano sicuri che il Brasile avrebbe stravinto anche l’ultima gara. Fu Friaca a portare in vantaggio i brasiliani al 47’. Ma Il grande Juan Alberto Pepe Schiaffino, detto il Dio del pallone, pareggiò i conti per l'Uruguay al 66’. A quel punto il Brasile con il pareggio sarebbe stato ugualmente Campione del Mondo. Ma non si accontentò e si spinse in avanti, esponendosi al contropiede dell’Uruguay. Il minuto della partita che paralizzò tutti i tifosi brasiliani fu il 79’: la grande ala uruguagia Alcides Edgardo Ghiggia si involò sulla destra saltando il suo diretto avversario. Il forte portiere brasiliano Moacir Barbosa Nascimento si aspettava il cross e decise di fare un piccolo passo in avanti. Ma Ghiggia, vedendo il portiere fuori posizione, invece di crossare, tirò rasoterra verso il palo lasciato scoperto. Non ci fu niente da fare, l’Uruguay si portò in vantaggio e mantenne il risultato fino alla fine, vincendo a sorpresa e contro i favori del pronostico il titolo mondiale. 
Ecco come viene descritto questo indimenticabile momento in  È finito il nostro carnevale di Stassi:

A undici minuti dalla fine, Schiaffino finta elegantemente sulla tre quarti e passa la palla a Ghiggia. Ghiggia riceve. Tiro. Goal. Uruguay due. Brasile uno. Moacir Barbosa, il primo portiere nero del Brasile, divenne bianco per il pallore. Nessuno gli avrebbe più perdonato di averla soltanto sfiorato, quella palla. Al fischio finale dell’arbitro, il Maracanã si accasciò come un pappagallino colpito a morte a cui avevano strappato le ali, piuma per piuma, e tagliato la lingua. Come se fosse precipitato da un’altezza vertiginosa sino al centro della terra. Per paradosso, la squadra che lo aveva impallinato si faceva chiamare Celeste. Lo definirono il silenzio più irripetibile della storia del calcio. Chi lo ha ascoltato può confermarlo. Un silenzio di duecentomila persone spacca i timpani e chiude la gola. Molti persero la voce per sempre. Il cronista che commentava la partita per radio abbandonò il suo mestiere. In tutta la nazione, i poveri e gli idealisti presero a suicidarsi”





Il portiere Barbosa, prima di morire a settantanove anni, dopo aver trascorso il resto della sua esistenza nell'indifferenza generale, dirà: “C’è chi dopo trent'anni sconta una condanna per omicidio, la mia invece non è finita neanche dopo cinquanta
In Brasile quel giorno piansero tutti. Fu più di una partita di calcio, fu una tragedia che uccise diverse persone. Alcune morirono di crepacuore, altre si suicidarono.
Il capitano dell’Uruguay Obdulio Varela, detto El Negro Jefe, rimuginò a lungo sul fardello morale della vittoria. Queste sono le parole che il grande scrittore Osvaldo Soriano gli attribuisce in uno splendido racconto-intervista pubblicato il 16 luglio del 1972 nel supplemento culturale del giornale La Opinión: “Loro per quella sera avevano preparato il carnevale più grosso del mondo e se l’erano rovinato. Gliel’avevamo rovinato noi. Mi sentivo male per questo. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto per un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza?”